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domenica 23 maggio 2010

Rubbia: "Il nucleare in Italia? Non risolverebbe i problemi energetici"

Nel corso di una recente trasmissione televisiva, il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia ha spiegato la sua visione sul delicato tema dell’energia nucleare. A chi propone la tecnologia delle centrali nucleari come unica risposta al problema di approvvigionamento energetico per l’Italia, Rubbia ha risposto con queste parole:

"Dobbiamo tener conto che il nucleare è un'attività che si può fare soltanto in termini di tempo molto lunghi. Noi sappiamo che per costruire una centrale nucleare sono necessari da cinque o sei anni, in Italia anche dieci. Il banchiere che mette 4 – 5 miliardi di Euro per crearla riesce, se tutto va bene, a ripagare il proprio investimento in circa 40-50 anni.
C’è un secondo problema: un errore che spesso la gente compie. Si pensa che il nucleare possa ridurre il costo dell’energia. Questo non è vero: un recente studio ha dimostrato, per esempio, che i costi per il nucleare in Svizzera continueranno ad aumentare.
I costi per il nucleare variano notevolmente da paese a paese: in Germania ha un prezzo di circa due volte e mezzo in più rispetto a quello francese. Ciò è dovuto al fatto che il nucleare in Francia è stato finanziato per anni dallo Stato, quindi dai cittadini. Ancora oggi, le 30.000 persone che lavorano per il nucleare francese sono pagate grazie agli investimenti massivi dello Stato. L’aumento del numero di centrali atomiche nel mondo in questi ultimi anni ha causato, inoltre, un considerevole aumento del costo dell’Uranio, che difficilmente tornerà a scendere. Il nucleare è dunque molto costoso, anche nel lungo periodo.

Io penso che se davvero noi volessimo adottare il nucleare in Italia lo potremmo fare, ma dovremmo organizzare procedure di contorno per supportare questa iniziativa. La quantità di energia richiesta dall’Italia è paragonabile a quella francese. Se dunque volessimo produrre il 30% dell’energia elettrica con il nucleare, come succede anche in Spagna, Germania e Inghilterra, ci servirebbero 15 – 20 centrali nucleari. In pratica una per regione.
Ciascuna di queste centrali produrrà una certa quantità di scorie, un problema estremamente serio. In America la questione è di stretta attualità. Sia Obama che Clinton hanno affermato chiaramente che Yukka Mountain – il più grande deposito di scorie in USA – andrebbe eliminato per trovare un sito più adatto per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. La soluzione di isolarli e sotterrarli non è infatti efficace come si vorrebbe.

Mi chiedo dunque: se non si riesce a risolvere il problema della costruzione di un inceneritore per riuscire a bruciare l’immondizia, come riusciremo a sistemare queste grandissime quantità di scorie nucleari che nessuno al mondo sa ancora smaltire?
In realtà, la risposta tecnicamente c’era per recuperare le scorie e renderle innocue. Io avevo un bellissimo programma per implementare questa tecnologia, per bruciare le scorie con gli acceleratori di materia. Il programma è stata bocciato e non finanziato dall’Italia, tanto da spingermi ad emigrare in Spagna".

La fuga dei cervelli e dei Nobel...

15 febbraio 2008

sabato 8 maggio 2010

L’impronta ecologica, ergo quanto l’uomo pesta i piedi al pianeta

Si parla tanto di ambiente di questi tempi. Sarà il principale problema del terzo millennio, non “le risorse si stanno esaurendo”, “il pianeta si sta scaldando”, “il buco dell’ozono va espandendosi”, eccetera eccetera.
Vero. Tutto vero. Per ricorrere a un comune modo di dire, da questo punto di vista siamo nella “m***a” fino al collo e, se l’andazzo generale resterà questo (ma potrebbe anche peggiorare), tempo qualche decennio ne avremo fin sopra i capelli. La realtà è che i danni ambientali causati dal progresso dissennato (e dunque spesso poco controllato) del genere umano nell’era industriale sono difficilmente “visibili”, percepibili dall’uomo oggi. In fondo chissenefrega se la temperatura terrestre aumenta di qualche grado (anche) perché si usa la macchina pure per andare dalla nonna che abita in fondo alla via. Saranno problemi per i pinguini dell’antartico a cui si scioglierà un po’ di ghiaccio sotto i piedi, non certo nostri.
O ancora, se a causa delle emissioni della mia industria da qualche parte in Amazzonia arrivano raggi ultravioletti e cancerogeni perché lo strato di ozono si è bucato, perché preoccuparsi? Al massimo avremo qualche indigeno con tre occhi. Questi esempi possono risultare un po’ banali e un po’ troppo semplificati, ma servono a comprendere facilmente la gravità della questione: lo stile di vita condotto dall’uomo oggi è ambientalmente insostenibile e causerà conseguenze gravissime alle generazioni future.
Fortunatamente negli ultimi vent’anni qualcosa si è mosso. Per la prima volta l’uomo ha iniziato a vedere il pianeta come un bene comune da salvaguardare anziché come risorsa da scialacquare liberamente. Nasce, all’inizio degli anni novanta, il concetto di sostenibilità, ossia dell’attuazione a livello mondiale di una politica di sviluppo economico e sociale che garantisca il mantenimento degli attuali standard di vita umana senza compromettere lo scenario mondiale per le generazioni future. Assieme a questo nuovo concetto viene pensato da un paio di ricercatori della British Columbia University un semplice metodo per valutare l’impatto sull’ambiente di ciascuna persona, ossia la sua impronta ecologica. Essa indica quanti ettari di terreno “biologicamente produttivo” servono per soddisfare i bisogni (acqua, energia, alimenti...) del singolo individuo, sulla base dei beni e servizi da lui consumati. Il risultato va confrontato con quello di biocapacità pro capite della Terra, cioè quanto terreno “biologicamente produttivo” può garantire il nostro pianeta per ogni singolo individuo.
Ora è tempo di snocciolarvi qualche dato: assumendo che ogni abitante della terra abbia diritto ad una uguale quantità di risorse e stando al rapporto del Global Footprint Network del 2008, la biocapacità media è di 2,1 ettari per abitante, a fronte di un’impronta ecologica di 2.7. Morale: consumiamo più di quanto potremmo, sconvolgendo così l’equilibrio terrestre.
Osservando i dati con attenzione si può notare come sia la biocapacità che l’impronta ecologica delle varie nazioni non siano distribuite omogeneamente sul pianeta: ci vuol infatti poco a capire che a fare la parte del leone alla voce consumi siano i Paesi sviluppati, con gli Stati Uniti in testa (hanno una IE di addirittura 9.5 ettari/ab), seguiti da diversi stati europei tra cui l’Italia (4.8).
Sul versante opposto, per la biocapacità si trovano in testa paesi africani quali il Congo, avente una BC di 13.9 ettari/ab, a fronte di un’impronta ecologica di soli 0.5 ettari/ab. L’equazione è dunque semplice: il mondo sviluppato consuma così tante risorse in più di quelle che dovrebbe che nemmeno tutto ciò che non viene consumato dai Paesi del Terzo Mondo sarebbe sufficiente per colmare la situazione di debito globale.
Questo dovrebbe essere un buono spunto per farci riflettere, poiché l’Italia stessa consuma circa 4 volte di più di quello che potrebbe permettersi, soprattutto nelle regioni del Nord dove il rapporto Impronta Ecologica/Biocapacità arriva ad essere pari a 5.75 volte nel caso della Lombardia. E allora, alla luce di questi dati, bisognerebbe ricordare che a quelle persone (e partiti) che additano gli immigrati come fannulloni e criminali, che se tutti vivessero come viviamo noi il mondo collasserebbe in pochi anni. Ciò detto, per concludere vi invito a calcolare voi stessi la vostra Impronta Ecologica: in rete si trovano diversi modelli di calcolo più o meno complessi e il tutto può essere fatto in non più di una mezz’oretta. Potrete così capire quanto “costate” al pianeta, nella speranza che questo possa tradursi in qualche doccia in meno e qualche chilometro in più in bicicletta...

di Marco Pozzoli, da La Voce di No Mas

giovedì 6 maggio 2010

Rubbia: "L'errore nucleare, il futuro è nel Sole"

Parla il Nobel per la Fisica: "Inutile insistere su una tecnologia che crea solo problemi e ha bisogno di troppo tempo per dare risultati". La strada da percorrere? "Quella del solare termodinamico. Spagna, Germania e Usa l'hanno capito. E noi..." di Elena Dusi

Come Scilla e Cariddi, sia il nucleare che i combustibili fossili rischiano di spedire sugli scogli la nave del nostro sviluppo. Per risolvere il problema dell'energia, secondo il premio Nobel Carlo Rubbia, bisogna rivoluzionare completamente la rotta. "In che modo? Tagliando il nodo gordiano e iniziando a guardare in una direzione diversa. Perché da un lato, con i combustibili fossili, abbiamo i problemi ambientali che minacciano di farci gran brutti scherzi. E dall'altro, se guardiamo al nucleare, ci accorgiamo che siamo di fronte alle stesse difficoltà irrisolte di un quarto di secolo fa. La strada promettente è piuttosto il solare, che sta crescendo al ritmo del 40% ogni anno nel mondo e dimostra di saper superare gli ostacoli tecnici che gli capitano davanti. Ovviamente non parlo dell'Italia. I paesi in cui si concentrano i progressi sono altri: Spagna, Cile, Messico, Cina, India Germania. Stati Uniti".

La vena di amarezza che ha nella voce Carlo Rubbia quando parla dell'Italia non è casuale. Gli studi di fisica al Cern di Ginevra e gli incarichi di consulenza in campo energetico in Spagna, Germania, presso Nazioni unite e Comunità europea lo hanno allontanato dal nostro paese. Ma in questi giorni il premio Nobel è a Roma, dove ha tenuto un'affollatissima conferenza su materia ed energia oscura nella mostra "Astri e Particelle", allestita al Palazzo delle Esposizioni da Infn, Inaf e Asi.
Un'esibizione scientifica che in un mese ha già raccolto 34mila visitatori. Accanto all'energia oscura che domina nell'universo, c'è l'energia che è sempre più carente sul nostro pianeta. Il governo italiano ha deciso di imboccare di nuovo la strada del nucleare.

Cosa ne pensa?
"Si sa dove costruire gli impianti? Come smaltire le scorie? Si è consapevoli del fatto che per realizzare una centrale occorrono almeno dieci anni? Ci si rende conto che quattro o otto centrali sono come una rondine in primavera e non risolvono il problema, perché la Francia per esempio va avanti con più di cinquanta impianti? E che gli stessi francesi stanno rivedendo i loro programmi sulla tecnologia delle centrali Epr, tanto che si preferisce ristrutturare i reattori vecchi piuttosto che costruirne di nuovi? Se non c'è risposta a queste domande, diventa difficile anche solo discutere del nucleare italiano".

Lei è il padre degli impianti a energia solare termodinamica. A Priolo, vicino Siracusa, c'è la prima centrale in via di realizzazione. Questa non è una buona notizia?

"Sì, ma non dimentichiamo che quella tecnologia, sviluppata quando ero alla guida dell'Enea, a Priolo sarà in grado di produrre 4 megawatt di energia, mentre la Spagna ha già in via di realizzazione impianti per 14mila megawatt e si è dimostrata capace di avviare una grossa centrale solare nell'arco di 18 mesi. Tutto questo mentre noi passiamo il tempo a ipotizzare reattori nucleari che avranno bisogno di un decennio di lavori. Dei passi avanti nel solare li sta muovendo anche l'amministrazione americana, insieme alle nazioni latino-americane, asiatiche, a Israele e molti paesi arabi. L'unico dubbio ormai non è se l'energia solare si svilupperà, ma se a vincere la gara saranno cinesi o statunitensi".

Anche per il solare non mancano i problemi. Basta che arrivi una nuvola...

"Non con il solare termodinamico, che è capace di accumulare l'energia raccolta durante le ore di sole. La soluzione di sali fusi utilizzata al posto della semplice acqua riesce infatti a raggiungere i 600 gradi e il calore viene rilasciato durante le ore di buio o di nuvole. In fondo, il successo dell'idroelettrico come unica vera fonte rinnovabile è dovuto al fatto che una diga ci permette di ammassare l'energia e regolarne il suo rilascio. Anche gli impianti solari termodinamici - a differenza di pale eoliche e pannelli fotovoltaici - sono in grado di risolvere il problema dell'accumulo".

La costruzione di grandi centrali solari nel deserto ha un futuro?
"Certo, i tedeschi hanno già iniziato a investire grandi capitali nel progetto Desertec. La difficoltà è che per muovere le turbine è necessaria molta acqua. Perfino le centrali nucleari in Europa durante l'estate hanno problemi. E nei paesi desertici reperire acqua a sufficienza è davvero un problema. Ecco perché in Spagna stiamo sviluppando nuovi impianti solari che funzionano come i motori a reazione degli aerei: riscaldando aria compressa. I jet sono ormai macchine affidabili e semplici da costruire. Così diventeranno anche le centrali solari del futuro, se ci sarà la volontà politica di farlo".


Roma, 29 Novembre 2009